IL TEMA

Giorgio de Chirico, “L’enigma dell’ora” (1910)

Il tempo, diceva Ungaretti, è muto. Eppure il tempo ha sempre parlato. Ha parlato tramite la bocca dei filosofi, il pennello degli artisti, la bacchetta dei direttori d’orchestra, i numeri della fisica e quegli stessi versi del poeta che lo dicevano incapace di parola. Sophia quest’anno dà voce al tempo, a un dialogo millenario, che ha avuto luogo sempre e in ogni cultura. Finché l’uomo camminerà su questa Terra si porrà sempre la domanda così piena di segreto che già si poneva il pensatore d’Ippona, Agostino: che cos’è, il tempo? È il “dio benigno” di Sofocle o quello “terribile” di de Maistre? È la “cura degli affanni” di Terenzio o il “divoratore” di Ovidio? E in quale senso bisogna intendere quest’oscura parola, che svanisce giusto nel tempo che serve a pronunciarla? Tempo significa molte cose. Significa memoria e ricordo quando è il tempo della nostalgia o del rimpianto, il tempo del poeta che ricorda la giovinezza perduta o il tempo di chi si rifugia da un presente affannoso, così come è il tempo di chi rievoca il passato grande o funesto di una nazione o di un popolo; significa speranza se, proiettato verso il futuro, ci sospinge in avanti, ci dà progettualità, sogno, aspettativa. Noi siamo abituati a osservare e contare il tempo con una pratica che riteniamo assoluta. Scandiamo il tempo come lo scandisce il metronomo di un musicista, controlliamo le lancette dell’orologio per non perdere il treno, aspettiamo che il tempo passi per poter tornare a casa da una giornata di lavoro. “Tomorrow and tomorrow and tomorrow […] from day to day to the last syllable of recorded time” diceva il Macbeth di Shakespeare: ecco la nostra idea di tempo. Ed è un’idea che la scienza più scolastica ed elementare sembra d’altra parte confermarci, quando stende sull’asse di un piano cartesiano la linea del tempo, con la freccia puntata verso una direzione precisa. Ma è davvero l’unico modo che abbiamo per comprendere il tempo? Gli antichi greci, ad esempio, non avrebbero mai utilizzato una linea per rappresentarlo. Il loro strumento era la circonferenza, che tanto assomiglia a quella rappresentazione esoterica del tempo, forse già egizia, che lo indica come un serpente che morde la sua coda. Un ciclo, idea che affascinò nientedimeno che Friedrich Nietzsche quando elaborò la sua celebre teoria dell’eterno ritorno. Non solo: i greci non avevano un solo modo per dire tempo, ma tre. Chronos, il tempo come siamo abituati a concepirlo, lineare, scandito, tripartito in passato, presente e futuro, il tempo degli orologi da polso; aiòn, il tempo eterno che suggestivamente Eraclito descriveva come un bambino che gioca muovendo i pezzi; kairòs, il tempo giusto, opportuno o, se vogliamo, qualitativo piuttosto che quantitativo. Questa è la grande tradizione che eredita l’Occidente, che eredita quello stesso Agostino che si pose l’annosa domanda e che la modernità fa sua, dal pensiero scientifico di Galilei e Newton, gli inventori di un tempo “assoluto” e “oggettivo”, ai grandi sistemi filosofici, uno su tutti quello di Kant, il quale oppose alla precedente visione meccanicistica quella di un tempo come forma a priori; la tradizione che riecheggia fino alla contemporaneità, l’epoca che forse elabora le visioni del tempo più complesse che conosciamo, dalla relatività einsteiniana alle filosofie di Bergson e Heidegger. Che cos’è il tempo? Diceva Marcel Proust: “Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata”.